Tra acquarelli e parole – Decimo incontro

Acquarello di Fernanda Freddo

Poesia di Adriana Tasin

Il passaggio 

Ora tu vedi le cose così 
con quella distanza lunga  
che ti fa abbracciare città e cielo. 
Entri per avvicinamento lento,  
come il fiume. 
È lo sguardo dell’intero,  
dei secoli deposti in bellezza 
in cupole e ponti. Ma le anime? 
Armeggiano a riva, nell’aria  
dagli alberi sbracciano, 
tentano di spalancarsi a te 
perché mai, mai si compia da sola  
la visione. Ti dicono: 
a destra, guarda, c’è la vita, fiorisce, 
inerba la sponda, 
a sinistra solo un albero spoglio 
e terra di colore bruno.  
Appeso nel mezzo del chiarore  
il segreto del passaggio.


Racconto di Gianna Ferro

Ogni volta primavera

La sveglia suona alle sette in punto. “Adesso, adesso” mormora Marcella che fatica ad aprire gli occhi. La sua faccia riflessa allo specchio sembra portare i segni di una lunga notte di bagordi. “Un caffè, mi ci vuole un caffè”.
La finestra della cucina, nella casa di Trastevere, si apre sul bellissimo e affollato lungotevere. Sul davanzale le piantine di basilico e rosmarino oggi emanano un profumo più intenso, fondendosi alla tiepida aria primaverile che investe Roma.
Mette su la moka e dà l'acqua alle piante. Il borbottìo della caffettiera la fa trasalire, mette giù l'annaffiatoio e si gode la sua tazzina di caffè. “Oh cavolo!” esclama guardando l'orologio “Devo sbrigarmi”.
Marcella ha una piccola libreria, che si trova in uno dei vicoli che si aprono sulla piazza di S. Maria in Trastevere. Vicoli che respirano storia, vicoli vissuti, descritti dalle parole del grande Trilussa: “Li panni stesi giocano cór vento
tutti felici d'asciugasse ar sole:
zinali, sottoveste, bavarole,
fasce, tovaje... Che sbandieramento![...]”.
E lì nella bottega, della zia Flora, dove una volta le signore del quartiere compravano stoffe e tessuti pregiati, ora c'è lei e i suoi libri. Dopo la morte della zia, ha ereditato la casa e la bottega, così che dall'Abruzzo, rimasta ormai sola, Marcella si è trasferita a Roma. Da piccola ci passava mesi interi in città e in quella bottega ore, a divertirsi con scampoli di stoffa a farne vestitini per le bambole.
“Marcella è arrivato il mio libro?” Il professor Astolfi, insegnante di greco in pensione, ogni mercoledì passa dalla sua libreria a comprare o a ordinare un libro. “Professore, arriva domani. Se non vuole aspettare mercoledì, in serata glielo porto a casa”. “No, preferisco passeggiare. Voglio godere di questo mite clima primaverile. A domani”.
Quando in libreria non ci sono clienti o inventari da fare, Marcella si immerge nella lettura, la sua passione, motivo per cui ha scelto di trasformare la bottega in libreria.
“ Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica“ legge a voce alta, immersa nel libro di Sylvia Plath, La campana di vetro.
“Signorina Marcella!” Come colta in flagrante, chiude il libro e si alza di scatto dalla sedia. “Ti ho spaventata?” “Sei tu!” “E chi pensavi che fosse?” dice la sua amica Claudia “Volevo ricordarti di stasera, passo da te alle nove e non dirmi di no.”
E' ora di chiusura.
La casa è il suo rifugio, dove ha portato ogni piccolo oggetto salvato dalla sua vecchia casa, anche il dolore, quello che non si tocca, ma che è sempre lì con lei. Va sul balcone della camera da letto e si accomoda nella poltroncina, immersa tra piante pensili e rampicanti: si perde nei ricordi, ha in mano la foto dei suoi genitori, una leggera brezza le asciuga una lacrima. E' il 6 Aprile, da allora sono trascorse tante primavere e Marcella rinasce ogni volta. Il rintocco delle campane del cupolone, che si scorge tra platani e qualche albero in fiore, al di là di Ponte Sisto, arriva fin lì.
Sono già le nove: il citofono suona, risuona. “Si stancherà!” pensa divertita Marcella.


Fiaba di Daniela Alibrandi

La magia del fiume

C’era una volta un vecchio, dalle mani nodose e macchiate, lo sguardo dolce e la barba bianca. Nella vita aveva avuto tanto, ma poi aveva perso tutto. Non tutto, si diceva, mentre osservava il giaciglio dove adesso trascorreva le sue notti solitarie. Possedeva ancora un fornello da campo dove potersi preparare un buon caffè al mattino, e degli angeli sconosciuti scendevano sulla banchina del Tevere per portargli il cibo, le sigarette e, quando faceva molto freddo, anche delle coperte. Un giovanotto, che tanto gli aveva ricordato di suo figlio, aveva piantato per lui una piccola tenda da campeggio, nel luogo più asciutto e nascosto agli occhi di chi transitava sul ponte. E poi aveva un tetto sulla testa e, anche se non era più quello della sua casa, adesso la volta era perfino più ampia e rassicurante. Insomma, non era mai solo. Lo scorrere lento del fiume lo aiutava ad addormentarsi e cullava i suoi sogni, i ratti che squittivano attorno a lui custodivano il segreto di quelle notti e al mattino il volo dei gabbiani gli faceva immaginare delle storie leggere.
Quando poi, vincendo la schiena curva, riusciva a guardare verso l’orizzonte incorniciato dall’arcata, si sentiva l’uomo più ricco del mondo. Attorno a lui c’era qualcosa che nessuno più poteva togliergli. La storia e la fede, l’antichità e le radici del suo essere. Vedeva la cupola di San Pietro stagliarsi sui cieli tersi che solo lui, da lì, poteva osservare. Era come vivere in un sogno dal quale ormai nessuno l’avrebbe più svegliato. 
Ma una mattina il vecchio non usciva dalla tenda. Se ne erano già accorti i topolini, che l’avevano udito lamentarsi nel sonno, e adesso anche i gabbiani stavano notando la sua assenza. Volavano sempre più in basso, ora che nell’aria non si spargeva il solito profumo di caffè, a cui pure loro erano affezionati. Così planarono sul terrapieno, dimenticando la consueta lotta contro gli altri animali.
Fu il gabbiano più anziano ad aprire la tendina spingendo con il becco la chiusura lampo. Presto si affacciarono anche gli altri e, tra le loro zampe, fecero capolino i sorcetti. Il vecchio stava male, forse preda di una febbre alta. Si guardarono tutti sgomenti e si consultarono tra loro.
“Non possiamo lasciarlo qui!” aveva detto il principale dei ratti.
“Ha ragione,” gli avevano fatto eco i giovani gabbiani, indirizzando uno sguardo severo al loro capo. Decisero che, se non erano in grado di guarirlo, almeno potevano fargli conoscere il cielo e tutto ciò che da lassù si poteva vedere. Fu così che i gabbiani presero posto ai lati di quel corpo scarno e afferrarono, ognuno con il proprio becco, un lembo del suo logoro abito. I topolini fecero largo e il loro capo diede il Via!
Tutti insieme si alzarono in volo. Iniziarono a sorvolare le infinite antichità della città, mentre il sole nascente carezzava il volto e la barba incolta del vecchio. Lui aprì gli occhi. Al di sotto scorrevano immagini di monumenti, chiese, tetti e giardini variopinti, colonne, marmi e strade grigie di sanpietrini. Il sole gli scaldava la pelle e i suoi amici lo stavano guarendo, finalmente si sentiva meglio ed era il protagonista di una illimitata magia. Capì che può accendersi una luce immensa perfino nel buio più profondo.