
Poesia di Camilla Ziglia
Bailaora
Si porta in centro in poca luce
il segno alle chitarre
silenzio.
Un gesto appreso
si allunga nei nervi
tende il muscolo che serve
piega il corpo al suo messaggio
e quasi è danza in contrazione
dove il vero sulla scena si confonde
e slaccia le sue frange.
Nocche sui tavoli,
la musica può cominciare.
Fiabia di Monica Spigariol
La Dea Ballerina
Il mondo era appena nato, in bianco e nero, ma in continuo divenire. Un giorno dei piedi leggeri carezzarono la terra in una danza. Era una dea ballerina che nei suoi movimenti conteneva tutti i colori che ancora non esistevano. Prese un fiore bianco e lo mise tra i capelli scuri. Il fiore brillò di un rosa intenso. La dea cominciò a percorrere il mondo volteggiando e danzando. Il suo vestito spargeva colori a ogni movimento e la Terra si trasformò in una distesa radiosa di verde, blu, marrone, azzurro, bianco e ogni tonalità possibile. La dea ballerina era felice: i suoi occhi si riempivano di vita guardando quel mondo così ricco. Un particolare, però, la disturbò. Era un angolo nero, di un nero troppo intenso, troppo profondo. Alla dea sembrò paura. Si avvicinò: si accorse che cresceva. La dea si immobilizzò, ma era contro la sua natura. Perciò danzò e col suo movimento cercò di farlo sembrare meno pauroso. Il nero, invece, crebbe. Divenne una massa pulsante e mutevole. La dea aumentò la forza della sua danza. Per tutta risposta il nero cominciò a circondarla. La dea vide tutto nero, ma non si arrese. Guardò il sole di un giallo così brillante da abbagliare. Il cielo azzurro talmente leggiadro da far scomparire le paure. Questa bellezza le diede coraggio. La natura era potente e lei ne assorbì la grandezza: la sua forza esplose e il nero che la terrorizzava venne sfilacciato in migliaia di filamenti impalpabili. Ce l’aveva fatta. Era esausta, la sua eterna danza si fermò e con la calma che segue la battaglia osservò la meraviglia che l’attorniava. Il mondo era un’armonia di colori: era gioia pura. La dea ballerina si addormentò: il suo lavoro era terminato. Quando si svegliò, dopo molto tempo, notò che gli sfilacciamenti neri avevano formato strade e case. Degli esserini dai movimenti frenetici percorrevano quel nero che lei era convinta di aver eliminato. “Ma chi sei?” chiese a una strada nera. Questa si mosse, sinuosa come un serpente, e alzandosi ritta verso la dea le rispose: “Sono quello che non è natura. Sono quello che è invenzione. Sono quello che è ingegno.” “Perché hai rotto l’armonia che avevo creato?” “Per te è rovina. Per me è tecnologia, innovazione e modernità. Il mondo è migliorato grazie a me.” La dea, in lacrime, lo accusò: “Sei un demone! Sei il male! Questo mondo morirà ricoperto da te, dal tuo nero soffocante! ”La strada si scosse. “Non sono né bene, né male. Sono un essere creatore, come te. Siamo diversi, ma abbiamo la stessa matrice. Doniamo noi stessi per questo mondo. Io e te possiamo convivere, non dobbiamo lottare. ”La dea si infuriò, poi vide un fiume scorrere spumeggiante, il sole che ancora brillava caldo nel cielo azzurro. Accanto ai suoi colori, il nero dell’arteficio. “Davvero?” “Vedi quegli esserini? Sono gli uomini, mi fanno crescere, ma amano il tuo mondo a colori. Fidati di loro.” La dea capì che era vero. “Va bene.” rispose. La dea si trasformò in un venticello birichino, per percorrere il mondo con giravolte e girotondi. “Convivremo” soffiò “ma veglierò sempre sui miei colori. ”Il vento iniziò il suo eterno viaggio nei cieli, mentre la strada tornò a posarsi in terra. Per sempre rivali, per sempre amici.
Racconto di Miriam Donati
Specchi
Nell’ultimo giorno di una breve vacanza a Siviglia attraverso i vicoli tortuosi della Juderia e,
indifferente ai cortili conquistati dai fiori, raggiungo la piazza.
Non so bene cosa aspettarmi da un monumento a una leggenda di solito esecrata.
Ha una mano aperta allungata verso di me e qualcuno con un gesto goliardico ha posto nel palmo
un’arancia, uno dei simboli della città. Lo sberleffo mi fa sorridere, richiama la leggerezza che mi
appartiene.
Don Juan mi guarda e io, dongiovanni da strapazzo, come mi ha chiamato Anna sbattendo la porta,
mi specchio in lui.
Un po’ me lo sono meritato, sia da lei, sia dalle Anna precedenti. Non prendo nulla sul serio, mi
innamoro facilmente, o meglio: sono attratto dal gioco della seduzione e, una volta raggiunto lo
scopo, purtroppo l’incanto sparisce e ritorna la ricerca spasmodica della tentazione successiva.
Lo stesso incanto incontrato poco prima nei giardini dei Reales Alcazares: un pavone che,
spaventato al mio avvicinarsi, si è allontanato di scatto aprendo il suo meraviglioso ventaglio
colorato. Un’immagine di bellezza a nascondere la fragilità.
Un ragazzino mi porge un volantino con la pubblicità di un tablao di flamenco, un altro invece mi
fa l’occhiolino: «Non andarci è un posto per turisti, se vuoi vedere il vero flamenco vai nel quartiere
di Triana, è lì che è nata la sevillana.»
Ho seguito il consiglio ed eccomi qui, in un posto spartano, buio, un’unica luce sopra il bancone-bar
dove ho recuperato una sangria in attesa dello spettacolo. I lunghi tavoli sono tutti occupati, un
brusio indistinto di chiacchiere andaluse mi risuona torpido nelle orecchie. Mi riscuoto all’arrivo di
due chitarristi e una ballerina nei tipici costumi gitani. Battendo i tacchi salgono sull’impiantito di
legno in fondo alla sala. La luce che li illumina è il segnale d’inizio.
Parte piano un lamento, scava la carne e poi si alza in un urlo disperato, la ballerina segue la
melodia con movenze sensuali. Non è bellissima, lo sguardo severo soverchia tutto il resto. Eppure
vorrei avere mille occhi per afferrare ogni particolare contemporaneamente, colgo invece solo
dettagli che mi paralizzano: i lucidi capelli corvini con la scriminatura centrale, la vena pulsante del
collo, gli occhi bistrati, i fiori dietro l’orecchio che accarezzano la curva della nuca, l’onda delle
anche, il movimento elastico dei muscoli della schiena inarcata e scoperta, le braccia flessuose che
si alzano e si abbassano in movimenti sempre più rapidi, i piedi che battono veloci.
Impossibile resistere a quell’urlo e a quel movimento, annaspo in cerca d’aria per il fiato trattenuto
e ansimo fino a quando il canto ridiventa lamento, le movenze si acquietano mentre la luce si
abbassa pian piano e si spegne. Le mani mi dolgono per averle battute seguendo il ritmo crescente.
Il trio continua le esibizioni mentre io resto bloccato in un bolla sospesa di esaltazione e desiderio.
Quando passano in una saletta attigua per bere, li seguo insieme ad altri avventori.
La danzatrice si volta e mi fissa per qualche secondo senza vedermi.
Dopo, steso sul letto, esaminerò e sezionerò quegli attimi cento volte dilatando il tempo e lo spazio
per avere conferma di ciò che ha rimandato il suo sguardo vacuo finché ricorderò l’incontro del
mattino con Don Juan e il pavone. Uno specchio dove da narciso ho visto il mio vuoto