Tra acquarelli e parole – Nono incontro

Acquarello di Ruben Gagliardini

Poesia di Stefano Camòrs Guarda

Il tempo fermo

Rasento le ombre, sconfitto
avanzo, nella città su cui astri
diffondono oscurità.
Corpi stanchi, privi di volto,
scevri d’identità vagano
confusi all’angoscia celata
in anfratti angusti, soffocanti.
Abbasso lo sguardo, nel pianto
annego sfumature, un chiaroscuro
che strazia il cuore. Tranelli
s’aggrappano al cemento:
ragnatele catturano la speranza.
Mi trascino nel mondo asettico,
gli alti palazzi m’ignorano; aguzzi
come siringhe, slanciate lancette
d’una vita, d’un orologio,
d’un tempo fermo.

Favola di Claudio Strauss

Benur

Nacque così la storia di Benur e le sorelle della Roccia, Ava, Anna e Ada, celebri e misteriose. Il nostro amico uscì di casa presto per andare a scuola, quando un sassolino gli attraversò la strada spinto dal vento, rimase a bocca aperta, perché brillava e lo invitava a seguirlo. Benur si dimenticò presto della scuola, degli amici e dei genitori. Mentre lo seguiva si accorse del panorama che stava cambiando, non in meglio, in peggio. Dove prima c’erano i prati, e un piccolo e docile fiume, ora vedeva sterpaglie, una terra arida, gli alberi assomigliavano a delle mani rugose. Fece un incontro bizzarro, una serpe con dei piccoli al seguito che strisciavano veloci, sembravano spaventati, la mamma ammonì Benur con un sibilo, – Sssh, stai attento! Il bambino non rispose, del resto non conosceva la lingua dei serpenti. Il sassolino si fermò alcuni secondi, riprese poi a rotolare a zig-zag, anche Benur lo imitò perché aveva timore di perdere quel nuovo e insolito amico. I colori erano spariti, vedeva solo alcune sfumature di grigio e il bianco sporco che aveva sostituito l’azzurro del cielo. Non si perse d’animo, spinto da quello spirito di avventura che ogni bambino dovrebbe possedere. – Spero tu conosca la strada al contrario, altrimenti dovrò chiamare un taxi! Disse divertito, come se il sasso potesse rispondergli. Finalmente capi di essere arrivato; dopo una salita ripida e una lunga discesa, rallentò il passo fino a fermarsi. Alzando la testa vide una roccia triangolare, molto frastagliata, sormontata da tre spuntoni che avevano del familiare. Com’era possibile? A osservare meglio quelle protuberanze erano tre facce, e lo stavano guardando. Un uomo dagli abiti sgargianti passò lentamente, non toccava terra di venti centimetri, il ragazzino stava sognando.- Tu che ci fai qui? Domandò l’uomo. – S-salve – Riuscì appena a borbottare, il piccolo era intimidito, ma prese coraggio. – Urca, te non tocchi terra, come fai? – Allenamento! – rispose l’uomo di Hozna. Scoppiò a ridere contagiandolo, iniziava a stargli simpatico. – Mi chiamo Benur, e tu chi sei? – Chiamami Ruben, oppure Aria, come vuoi, tanto qui ci sono solo io e… E queste tre ragazze quassù – Indicò la Roccia di Ava, Anna e Ada. Il ragazzino alzò la testa per guardarle, incrociando i loro occhi spenti. L’Uomo di Hozna si inginocchiò per osservare Benur, il quale rimase ammaliato nel vedere i suoi occhi arcobaleno, ogni colore era così vivace, la terra intorno a lui aveva riacquistato il verde dei campi, gli alberi di un bel color castagna, gonfi di frutti e quanti profumi lo deliziavano. Fu breve, perché tutto tornò come prima, grigio e sospeso in un tempo indefinito. – Cosa è successo? Gli occhi di Benur si fecero lucidi, divenne triste. – Non fare così, vuoi aiutare queste tre ragazze? Allora allenati, allenati a rimanere curioso, a fare domande, ora vai, torna qui domani e parla con loro, ma a una condizione, indossa sempre gli occhi arcobaleno, a presto. -Benur fu svegliato dalla mamma. – Forza dormiglione, è ora di andare a scuola! – Si sedette sul letto pensando, – Devo andare da loro, hanno bisogno di me, la scuola può aspettare. – Vestendosi in fretta uscì di casa e iniziò a correre, conosceva la strada.

Racconto di Serena Barsottelli

Come grandine

Prima della neve, erano cadute le stelle. E prima ancora le nostre speranze. A terra, sul prato del giardino, a tingerlo di bianco. Sembrava grandine, sembravano palle di vetro. Avrei potuto inghiottirne una e sanguinare così tanto da morire. Perché quando i sogni finiscono, si sa, finisce anche tutto il resto. Due giorni, il tempo di preparare una valigia con dentro un po’ di roba decente, salire sull’aereo e partire. Destinazione dettata dalla necessità, l’occasione della vita. In altre parole, quell’opportunità che ti cambia davvero la vita. Due giorni per volare dall’altra parte del mondo. Cambiare tutto, anche il mio nome. Non essere più Luisa, ma Patrizio. Tagliare i capelli, poter finalmente camminare nel modo giusto, giusto per me almeno. Smettere di dover fasciare il seno, aspettare soltanto la data dell’intervento. Imparare a modulare meglio la voce, capire come si rade la barba. Imparare a riconoscere il mio corpo, il mio vero corpo, non quello in cui la natura mi ha rinchiuso quando sono nato. «Finalmente il tuo turno…», aveva detto mia madre. «Finalmente il mio posto». Dentro, fuori. Avevo sorriso come un maratoneta che vede da lontano il traguardo ed è primo. Ce l’avrei fatta, avevo vinto sfide peggiori, come la lotta quotidiana davanti a ogni specchio, a ogni abito, a ogni centimetro di pelle. Ero consumato dentro, sì, ma ancora vivo. Era la mia occasione. Potevo essere chi volevo. E poi? Poi cos’è successo? Si è mosso nell’aria, forse. Come le stelle quando cadono, nel cielo. Come la neve, come la grandine. Ma in silenzio, e invisibile. È entrato nelle nostre città, ad alcuni anche nelle narici. E prima era solo una persona, poi tre, poi cento. E alla fine tutto il mondo era una macchia grigia e anche noi lo stavamo diventando. Le corone che qualcuno aveva posato sulle nostre teste e sulla nostra vita non erano quelle che avevamo immaginato da piccoli. Nessuna Principessa Luisa, il nome che mia madre aveva scelto. Nessun Principe Patrizio, quello che realmente mi sentivo. «Hai aspettato tanto… Non è colpa di nessuno, amore». Così ho ripreso a fasciare il seno, a renderlo invisibile. E non importa se sono chiuso in casa, se non ho nessun altro a cui mostrarmi: quell’immagine nello specchio non sono io, non sono più io, anzi, non lo sono mai stato. Perché io con me stesso devo farci i conti sempre, comunque, ogni giorno. Al risveglio, mentre copro il mio corpo, mentre cerco di non ascoltare la mia vera voce. «Mi distrugge vederti così…»Sono grigio, tutto è grigio. La mia vita non è mai stata bianca, né nera. Né rosa, né azzurra. Solo grigia. E spesso mi sento stanco, penso di aver raggiunto il mio limite. Poi guardo mia madre e nel suo sorriso riconosco qualcosa che mi è caro, e cerco di resistere. Sopravvivo, per lei, più che per me. Finché anche lei non diventerà grigia e perderà il suo sorriso. Finché quella cosa che mi mangia dentro non gratterà via anche il suo ricordo. Nella foto, sul tavolino da fumo nel salotto, mia madre sorriderà per sempre. Dovevamo solo aspettare un altro po’, diceva. Eppure non lo vedrà. Non conoscerà mai Patrizio. O forse lo ha sempre conosciuto, anche quando era nascosto sotto la pelle di Luisa.