Il saggio “Sulle fiabe” di J.R.R. Tolkien

l mio più grande maestro è John Reuel Ronald Tolkien.

In passato, quando avevo più tempo a disposizione, lessi per ben sei volte “Il signore degli Anelli” e tre volte “Il Silmarillion”. Che dire poi di “Lo Hobbit”, dei “Racconti incompiuti” e de “I figli di Húrin”. Quest’autore è, ai miei occhi, non solo il fondatore del fantasy, ma soprattutto l’ultimo grande cantore di saghe epico-cavalleresche. A mio avviso, fu il ponte tra l’antico e il contemporaneo.

Uno dei suoi libri che più custodisco gelosamente è “Albero e foglia”, che contiene al suo interno il saggio “Sulle fiabe”. Ben 107 pagine in cui il professore illustra (divagando a volte anche un po’ troppo) le caratteristiche che dovrebbe avere questo genere letterario. Tutto nacque a seguito di una critica poco felice di C.S. Lewis, nientepopodimeno che l’autore della saga di Narnia, a cui Tolkien decise di controbattere.

Vi esporrò qui di seguito i concetti fondamentali.

In inglese “fiaba” si dice “fairy-story” o “fairy-tale”. Quest’ultimo termine entrò nell’uso comune attorno al 1750 e il suo principale significato, dizionario alla mano, era “racconto riguardante le fate o leggenda fiabesca”. Una definizione assolutamente insufficiente secondo Tolkien. Infatti il mondo di Feeria è molto più ampio e più ricco, non è solo da ricollegare a questi esserini e agli Elfi, giacché annovera moltissime altre creature: gnomi, streghe, trolls, giganti, draghi “e noi stessi, uomini mortali, quando siamo vittime di un incantesimo”. E qual è il significato di “Feeria”? Il più idoneo è “magia”. E la magia, in questo regno, non può mai essere presa alla leggera.

Sono degne di essere catalogate tra i fairytales le fiabe francesi di Perrault e quelle tedesche dei fratelli Grimm; sono invece da escludersi i semplici resoconti di viaggio, anche se conducono in terre esotiche, e quei racconti che spiegano il meraviglioso grazie all’espediente del sogno, perché i racconti di Feeria devono sempre esseri veri. E qui Tolkien critica tutte quelle raccolte di racconti che vengono spacciati dagli autori come “fairytales” ma che tali egli non considera, perché non sfiorano minimamente quel regno incantato. Se la prende soprattutto con i dodici “Fairy books” di Andrew Lang (1). In questi libri sono state incluse storie che non c’entrano nulla, come un viaggio a Lilliput o favole. Queste ultime, come ben sappiamo, sono un genere letterario con caratteristiche sue proprie: ad esempio la morale è sempre esplicitata, i protagonisti sono animali con comportamenti umanizzati e l’uomo, quando presente, è un personaggio di secondo piano.

“La storia delle fiabe è probabilmente più complessa della storia biologica della specie umana, e altrettanto complessa della storia dell’umano linguaggio”. Tolkien però non si dilunga oltre su questo tema per due ragioni: non è materia di sua competenza e necessiterebbe di lunga trattazione. Allora ecco giungere una delle critiche più feroci all’editoria a lui contemporanea.

Si presuppone sempre che “l’uditorio naturale” della fiaba sia costituita dai più piccoli, perché li si ritiene più inclini alla così detta “sospensione dell’incredulità”. Secondo Tolkien si tratta solo di un pregiudizio dei grandi nei confronti del vorace appetito dei bambini, che sono solo desiderosi di apprendere. Essi infatti “non amano le fiabe più degli adulti né le capiscono meglio di questi”. Questo genere letterario è stato relegato nella stanza dei piccini alla stessa stregua dei mobili vecchi, perché il gusto dell’uomo europeo moderno lo ha classificato come “cianfrusaglia letteraria”, ed è giunto a deteriorarsi proprio perché, con questa “scusa”, ci si sente autorizzati a trascurarlo. Un errore che commette Lang stesso, giungendo a dichiarare che la fiaba è l’equivalente scarno del romanzo e perciò adatto all’infanzia. Secondo Tolkien tutto ciò è legato a una bassa considerazione dei bambini da parte degli adulti, che non riescono mai a considerarli come importanti membri della famiglia e dell’umanità in generale. E questo basso giudizio è comprovato dalle parole scritte da Lang nella prefazione di uno dei suoi volumi: secondo lui, i piccoli hanno la stessa sensibilità di quei lontani progenitori che andavano in giro nudi. Tolkien sottolinea però che quei nostri antenati furono gli stessi che inventarono la matematica e le scienze, materie che l’adulto ben si guarda dal riporre in un angolo delle camerette dei bimbi.

Certo, la letteratura per ragazzi ha prodotto nuovi libri graziosi, prosegue il professore, in grado di affascinare persino gli adulti, ma gli adattamenti delle fiabe sono un folto, pericoloso sottobosco: “le antiche vicende vengono edulcorate o espurgate invece che conservate; le imitazioni sono spesso semplicemente sciocche, rese leziose a spese dell’intreccio; oppure hanno un tono paternalistico o […] nascostamente sogghignante, con un occhio agli altri adulti in ascolto.”

La necessità di epurare queste opere dagli elementi più cruenti è, aggiungo io, un’importante testimonianza di come la fiaba, in origine, fosse stata redatta per gli adulti, al fine di ammonirli sui corretti comportamenti morali da tenere, o a simboleggiare rituali di cui abbiamo perduto la memoria, come nel caso della “Bella addormentata”, che cela una ierogamia cosmica, le nozze sacre tra cielo e terra (la principessa, violentata dal principe, si desta a causa delle doglie indotte dal parto, ossia la terra, in preda al letargo invernale, viene fecondata dal cielo e si desta in primavera quando i germogli escono dal sottosuolo) o de “La bella e la bestia”, che simboleggia l’affrancamento dal legame paterno e l’accettazione della sana maturità sessuale femminile (2).

Secondo Tolkien le fiabe dovrebbero essere scritte per e lette da adulti, anche perché la loro ideazione e stesura è “difficile”, in quanto il loro inventore si rivela un felice “subcreatore” nel momento in cui costruisce “un Mondo Secondario in cui la mente del fruitore può entrare. All’interno di tale mondo, ciò che egli riferisce è “vero”, nel senso che concorda con le leggi che vi vigono. Di conseguenza ci si crede mentre vi si è, per così dire, dentro. Nel momento stesso in cui l’incredulità si manifesta, l’incantesimo è rotto.” Riqualificandolo, questo genere otterrà gli stessi benefici di qualunque altra forma letteraria ben curata e anche i lettori più giovani potrebbero beneficiare di testi di maggiore qualità, in grado di adattarsi alla loro età e accompagnarli nella crescita, promuovendola. Un’osservazione, questa, che sembra quasi precorrere i tempi odierni: accompagnare i ragazzi nella crescita con le letture adeguate è infatti uno degli obiettivi che oggi animano i progetti attuati nelle biblioteche e nelle scuole, come ad esempio “Nati per Leggere”.

Queste narrazioni offrono anche altri preziosi doni, prosegue Tolkien, ossia Fantasia (l’Arte Subcreativa, in grado di creare un “Mondo Secondario” che sia credibile, al fine di portare il lettore a estraniarsi dal “Mondo Primario”), Ristoro (che ci permette di tornare ad analizzare criticamente la realtà dopo esserci assuefatti ad essa), Evasione (la fuga dalla banalità quotidiana) e Consolazione (la catarsi suscitata dal lieto fine), dei quali hanno maggiore necessità gli adulti, piuttosto che i bambini.

Questo saggio venne scritto nel 1938-1939, anni in cui “Il signore degli anelli” (LOTR per gli appassionati), pubblicato a partire dal 1955, stava cominciando a venire alla luce. La descrizione di fiaba che Tolkien dà in questo scritto si potrebbe estendere anche alla sua intera produzione letteraria, se non fosse che nel saggio egli sottolinea l’importanza del tono utilizzato per qualificare le fiabe come tali. Per questo, quando ricevette delle critiche per il suo “Lo Hobbit” (del 1937), egli le accettò: aveva impiegato lo stile tipico delle fairytales e perciò in molti consideravano la sua opera un prodotto per bambini, ma si infuriava quando la medesima osservazione era mossa ai danni del LOTR, per il quale aveva utilizzato ben altro registro linguistico. Ancora oggi, nel Regno Unito, i brani tratti dalla trilogia vengono letti da attori di teatro shakespeariano.

Elisabetta Ferri

Note

  • (1) Nato nel 1844 e morto nel 1912, Andrew Lang fu uno scrittore e poeta scozzese ricordato soprattutto per i libri, ognuno connotato da un colore ben preciso, in cui raccolse racconti folkloristici e di fate. In Italia è stato tradotto solo “Il libro rosso delle fiabe”.
  • (2) Per “La bella e la bestia” vedere il saggio di Joseph L. Henderson contenuto in “L’uomo e i suoi simboli” di Carl Gustav Jung.