Tra acquarelli e parole – Settimo incontro

Acquarello di Nadia Belardi, Maria G. Costantini

Poesia di Alessandra Corbetta

Ricostruzione

C’è un ruscello, un albero, una città lontana.
C’è da ricostruire il luogo
del patto che è stato
violato. E perdonare.
Non dalla sfera avvolta su stessa
ma dalla sfera che in sé stessa ripristina l’ordine.
Dall’uno e dopo il due. Dall’altezza dei palazzi.
Il verdeazzurro dell’infanzia.
Chi resta vince. Chi resta sopravvive
e traduce la memoria. Chi scappa
dimentica la strada. Le cose venute prima.
Scolorare i segni. L’acqua non punisce
chi è stato benedetto. 

Favola di Marina Litrico

Due reami

C’era una volta, arroccato su una collina e nascosto da un boschetto, un piccolo borgo cinto da alte mura da cui spuntavano tettucci rossicci, un’alta pagodina del vecchio castello in pietra grigia, una torre e un campanile. Non era un reame popoloso, né molto ricco, persino il re, un tipo gioviale e alla mano, si alzava di buon mattino e lavorava cantando insieme ai suoi sudditi nelle stalle e nei campi, non disdegnando alcun lavoro, fiero della sua abilità manuale. Nel pomeriggio, dopo un pranzetto preparato personalmente dalla regina, riceveva per le udienze i sudditi e ascoltava ogni diatriba amministrando giustizia. Dopo cena, dava semplici e festosi ricevimenti con giochi, musiche e danze che però duravano poco perché, in quel paese, ciascuno concludeva la giornata leggendo qualcosa di gradevole per scivolare poi nel sonno e nei sogni. Di solito tra le ventidue e mezzanotte dormivano e sognavano tutti. Così iniziava un’altra vita perché un azzurrognolo, etereo paese, identico all’altro immerso nel sonno, sorgeva in cielo durante la notte e si animava dei sogni che ognuno sognava. Al mattino tutto svaniva, di quel reame gemello restavano il contorno sfumato e una vaga traccia dei sogni; una meraviglia per i più mattinieri. La vita procedeva quieta con l’alternarsi delle stagioni che mutavano i colori del boschetto vicino; sotto al ponticello il ruscello gelava in Inverno e gorgogliava rapido in Primavera. In tutto il piccolo regno esisteva solo una persona insoddisfatta di quel placido vivere ed era il figlio del re, che ormai andava per i diciotto anni e, dal bimbo e fanciullo solare che era stato, si era mutato in un allampanato ragazzo abulico, scontroso e solitario. Invano il re e la regina, stupefatti e angosciati dal cambiamento del loro amato figliolo, avevano cercato di coinvolgerlo in varie attività, da quelle del padre fino all’uncinetto di mamma, niente suscitava un vero interesse, una passione. Il principino imparò svogliatamente quasi tutte le attività esercitate in paese, ma giusto l’indispensabile per non scontentare mamma e papà poi, appena possibile, si rinchiudeva nella sua stanza a far nulla o, verso sera, balzava a cavallo e gironzolava nel boschetto per fermarsi poi sul ponticello in notturna contemplazione della luna. Unico insonne, prese ad osservare curioso ogni notte il sorgere del borgo dei sogni e ciò che vi si svolgeva. Una notte scorse una candida, evanescente giovinetta preda di un brutto incubo, infatti correva disperata cercando di sfuggire ad un orco enorme e spaventoso. Il ragazzo corse subito al salvataggio, ma tutto svanì repentinamente al primo apparire dell’alba. Era giunto però al portone del castello e così si disse che se la visione l’aveva condotto fin lì, proprio in quel luogo doveva vivere la fanciulla sognante e da quel momento si mise a cercarla. I giorni scorrevano, ma della fanciulla in carne ed ossa nessuna traccia, il principe iniziò a deperire fino a quando, sfinito, finalmente s’addormentò e sognò la fanciulla, si incontrarono in sogno e in quel sogno congiunto e felice si giurarono eterno amore. Al risveglio la fanciulla si rivelò una contadinella guardiana delle oche, ma era tanto bella e gentile, il principe tanto innamorato e pieno di buone intenzioni, che i suoi reali genitori acconsentirono subito alle nozze dimostrandosi soddisfatti dell’umile nuora. Fu così che vissero tutti felici e contenti.

Racconto di Sabrina Carletti

Oltre il ponte

C’era la necessità di capire perché nell’ultimo mese, tutte le mattine, quando scendevo dal letto mi facevano terribilmente male i piedi. Dieci minuti, solo per dieci minuti, una scossa elettrica mi bloccava le gambe e poi passava, come lo squillo di un campanello. I problemi di salute non rientravano nella lista delle priorità della mia vita, semplicemente la affiancavano, come mangiare, dormire e andare in bagno. I dolori alle ossa c’erano, poi passavano, poi tornavano. Erano molto creativi, sempre diversi e sempre in posti diversi. Il dolore ai piedi mi costrinse a riflessioni di tipo pratico: se fosse aumentato, mi avrebbe costretto a stare ferma. Impossibile: ferma non ci potevo stare. L’ipotesi mi mise in uno stato di ansia che dovevo annientare subito. L’ansia non me la potevo permettere perché l’ansia deconcentra. Dovevo prendere sul serio quel dolore? L’idea di un appuntamento con un medico, mi provocava un fastidioso disagio psicologico: significava spostare gli impegni già presi. Mentre componevo il numero del medico, ebbi la sensazione che il disagio fosse più che altro paura. L’appuntamento mi fu dato a breve. Meno male, pensai, così avrei avuto meno tempo per spaventarmi. Il giorno della visita, mentre guidavo, alla radio passavano una vecchia canzone che mi distolse dai pensieri ossessivi: lavoro arretrato, appuntamenti mancati, il controllo su tutto, l’inquietudine al solo pensiero di dover delegare qualcosa, le visite ai musei, unico mio, vero, privato amore. La musica, familiare, pose fine al ticchettio – fuori tempo – del mio battito, ma fu il ricordo di un’immagine a procurarmi un piacere, anche fisico. Mi rivedevo dentro ad un piccolo museo, davanti ad un quadro ad acquarello che mi aveva rapito per la delicatezza dei colori, ma principalmente per la profondità della narrazione. Non ci pensavo da tanto tempo e mi sorpresi per un secondo, nello specchietto, a sorridere pensando a come, quel vortice di pennellate mi aveva emozionato…perché lo avevo dimenticato? Quando scesi dalla macchina, al parcheggio dell’Ospedale, l’agitazione era scomparsa e mi incamminai lentamente. Inusuale per me. Una voce annoiata annunciò che era il mio turno. Cercavo di aggrapparmi a quella immagine perché placasse il boato che investì la mia testa. Feci i pochi passi, che mi separavano dalla porta dell’ambulatorio, fuori dal mio corpo, in una bolla di tempo dilatato mi vidi di fronte a quel dipinto e da quel dipinto cercavo disperatamente la forza. Le parole del medico risuonavano lontane, non le ascoltavo. Capii solo che da quel momento tutto sarebbe cambiato, ma io ero già accovacciata all’ombra del maestoso albero, e osservavo un vecchio ponte di pietra, familiare, accogliente, evocativo di lontane sofferenze che mi facevano sentire meno sola. Decisi di accettare l’invito di quel Ponte che, come un tempo aveva accolto i passi di un’altra donna che soffriva, adesso accoglieva me, leggera, libera e ipnotizzata dalla bellezza circostante: osservavo, respiravo, seguivo la strada che mi indicavano i cipressi. In lontananza vedevo casa mia. L’istinto mi avrebbe portato lì, ma io dovevo rimanere distante. Intrappolata nella storia, che il dipinto mi stava narrando, imparavo come l’arte attraverso percorsi, a volte invisibili, incontra le nostre vite e ci aiuta a dar loro un senso nuovo.