L’Arbor inversa

Nel “Purgatorio” Dante menziona ben due alberi, più precisamente nel canto XXII, vv. 115-148, e nel XXV, vv. 100-114. Il secondo è l’albero della scienza del bene e del male, ma in questa sede ci occuperemo del primo, ben più particolare, in quanto viene descritto con l’aspetto di un cono rovesciato:

Ma tosto ruppe le dolci ragioni / un alber che trovammo in mezzo alla strada, / con pomi a odorar soavi e buoni; / e come abete in alto si digrada / di ramo in ramo, così quello in giuso, / cred’io, perché persona sú non vada.

Fotografia di Cosetta Frosi (CR)

Perché questa posizione insolita?

René Guénon in “Simboli della scienza sacra” crede che, da un punto di vista squisitamente letterario, la ragione sia da ricercarsi nel fatto che il Paradiso Terrestre, posto in cima alla montagna del Purgatorio, sia in posizione sovra-cosmica. L’immagine dell’albero capovolto infatti ricorre anche in “Paradiso” XVIII, vv 28-30, nel quale le sfere celesti sono descritte come la corona di un albero capovolto:

in questa quinta soglia / de l’albero che vive de la cima / e frutta sempre e mai non perde foglia”.

Questa idea non è un’invenzione del Sommo Vate, perché si riscontra anche in molte altre culture.

Mircea Eliade nel suo “Trattato di storia delle religioni” rivelava che nella tradizione indiana il Cosmo viene raffigurato proprio come un’arbor inversa:

“ “I suoi rami sono l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra,” eccetera. Sono gli elementi cosmologici che manifestano questo “Brahman il cui nome è Asvattha. Avendo la sua sorgente nel non-manifestato (“ayakta”), emergendo da lui come da un sostegno unico, il suo tronco è “buddhi” (intelligenza); le sue cavità interne (sono) canali per i sensi, gli elementi cosmici; i suoi rami sono gli oggetti dei sensi; le sue foglie, i suoi bei fiori: il bene e il male (“dharma-dharmav”); il piacere e la sofferenza: i suoi frutti. Questo eterno Albero-Brahman (“brahma-vrksa”) è fonte di vita (“ajibyah”) per tutti gli esseri.”

Schuré aggiungeva che in certi testi indù si nominano addirittura due alberi sovrapposti con due chiome e un unico tronco: uno cosmico, chiamato ashwattha, e l’altro sovracosmico, nyagrodha. 

Eliade accenna anche a questo:

Holmberg ha trovato la stessa tradizione nel folklore islandese e finlandese. I Lapponi sacrificano ogni anno un bove al dio della vegetazione, e in quest’occasione un albero viene posato accanto all’altare, con le radici per aria e il fogliame per terra. Nelle tribù australiane Wiradyuri e Kamilaroi, gli stregoni avevano un albero magico, che piantavano rovesciato; dopo averne spalmato di sangue umano le radici, lo bruciavano. A proposito di questa usanza Schmidt ricorda le cerimonie di iniziazione di un’altra tribù australiana, Yuin; un giovane, che sostiene la parte del morto, viene seppellito, e quindi si posa sopra di lui un arbusto. Quando i neofiti, candidati all’iniziazione, gli si avvicinano, il giovane fa tremare l’arboscello, poi si alza ed esce dalla tomba. Secondo Schmidt l’arbusto rappresenterebbe l’Albero celeste delle Stelle.

Anche nella cabala ebraica l’albero della vita è rovesciato. Ce ne spiega le ragioni il rav. Michael Laitman nell’analisi del libro dello Zohar:

Al fine di creare l’uomo lontano da Sé, così che l’uomo capisse quanto è insignificante e arrivasse autonomamente al desiderio di ascendere, il Creatore ha concepito tutta la creazione come gradini che discendono da Lui. La Luce del Creatore è scesa lungo questi livelli e, al livello più basso, ha creato il nostro mondo e l’uomo che lo abita. Dopo aver compreso quanto è insignificante e dopo aver desiderato di ascendere al Creatore, l’uomo (nella misura in cui desidera avvicinarsi al Creatore) risale quegli stessi livelli attraverso i quali è avvenuta la sua iniziale discesa.

Essendo il Creatore un’entità incorporea e il Suo mondo di Luce celato da uno spesso velo, la Shekinah, Egli può essere percepito dall’uomo solo attraverso il cuore. Per “cuore” però la cabala non intende l’organo fisico, bensì “il fulcro di tutte le sensazioni dell’uomo”, un piccolo punto che deve essere sviluppato affinché possa aiutarci finalmente a percepire Dio. Il problema è che in questo mondo il nostro cuore è colmo di impulsi egoistici che devono essere sostituiti con quelli altruistici. L’altruismo è proprio del mondo spirituale e per allinearci ad esso è necessario rinunciare a ogni impulso egoistico:

Dopo essere nato nel nostro mondo, l’uomo è obbligato a cambiare la natura del proprio cuore da egoistica ad altruistica, mentre vive nel mondo. Questo è lo scopo della sua vita, la ragione della sua presenza nel mondo e lo scopo di tutta la creazione.

Se si fallisce, il ciclo delle reincarnazioni non può avere termine.

L’albero della vita è anche detto sefirotico, perché i dieci diversi livelli che lo costituiscono sono dette sefirot (al singolare sefirah) e sono: Keter, Hochma, Bina, Hesed, Gevura, Tifferet, Netzah, Hod, Yesod e Malchut. Esse celano la Luce di Dio, che va scemando via via che ci si avvicina alla Terra.

Per avvicinarsi di nuovo a Dio l’essere umano deve compiere un cammino di risalita verso l’alto: dalla sefirah più bassa (Malchut), dopo aver acquisito tutta la sapienza celata in ognuna di esse, si potrà percorrere la via che porta alla successiva, fino alla meta finale Keter, sefirah della Corona.

Come sopra, così sotto: il Macrocosmo corrisponde al Microcosmo, ossia all’essere umano. Per tale ragione Platone e Galeno sostenevano che noi stessi saremmo simili a un’arbor inversa, in quanto il cervello rappresenterebbe le nostre radici, perché in caso di gravi danni alle vertebre cervicali, il resto del corpo può rimanere paralizzato.

Una sera, mentre riflettevo su una lezione di tarologia di Alejandro Jodorowsky, notai una cosa particolare. Non solo, come da lui stesso spiegato, l’Arcano XII l’Appeso ha effettivamente una postura speculare e capovolta rispetto al XXI Il Mondo, ma mi venne da fare un parallelo con la posizione dell’albero dello yoga. Lungi da me alludere a un legame reale tra yoga e tarocchi, è stata una semplice associazione mentale della sottoscritta, visti anche i significati di questa lama. Per chi non lo sapesse, questa carta raffigura un uomo appeso a testa in giù che guarda dritto di fronte a sé. Ha le mani dietro alla schiena ed è legato a un bastone orizzontale tramite una breve corda attorcigliata alla caviglia sinistra. Questo palo è a sua volta sorretto da quelli che possono sembrare degli alberi rovesciati.

L’Appeso ha dei significati per certi versi in comune con l’arbor inversa. Ha i piedi (le radici) in cielo e guarda il mondo da una prospettiva diversa che gli permette di spezzare con i vecchi schemi mentali, con le concezioni errate e la visione materialistica del mondo. Se, come scrive Guénon, il mondo di sotto è capovolto rispetto a quello di sopra, allora significa che egli lo sta guardando dal verso giusto. Il grado 2 nei tarocchi sta ad indicare l’accumulo, la sosta o la reclusione e l’Appeso resta sospeso tra cielo e terra, fermo, in una posizione rilassata e concentrata. Il suo intento è quello di smettere di essere guidato dalla razionalità (e dunque dall’Ego) per lasciare maggiore spazio alla ricettività (il Sé) e alla saggezza che custodisce dentro se stesso. La presa di coscienza e il processo di sviluppo interiore sono significati che anche Jung attribuisce all’albero filosofico. Il ritirarsi in se stessi e nel raccoglimento al fine di trascendersi e liberarsi sono concetti presenti anche nel Mahabharata indiano. Altro elemento di nota, è che nel manuale il regista cileno associa i dieci bottoni sulla giacca del personaggio alle dieci sefirot dell’albero della vita cabbalistico. Inoltre quest’Arcano sta ad indicare anche dei problemi nell’albero genealogico, i nodi karmici a livello familiare.

Persino nella mitologia norrena c’è un appeso famoso: Odino, che per comprendere i misteri del mondo rimase impiccato a Yggdrasil a testa in giù per nove giorni e nove notti.

L’albero è sempre stato sacro per i nostri antenati: esso proietta nella sua ombra a terra un mandala (che secondo Jung è l’emblema del Sé realizzato) oppure ricorda parti anatomiche umane, come ad esempio il sistema circolatorio o i polmoni con i suoi bronchi, ma anche la placenta umana ha un aspetto che richiama molto l’albero della vita, il medaglione tondo con al suo interno un albero dotato di rami e radici, spesso realizzato a mano da artigiani che lavorano con i fili di metallo.