Dalla nota di Lamberto Garzia
La poesia della Tasin appare – già da una prima lettura o apertura libro casuale – manifestarsi in una diversità di strati lessicali, affastellando in un breve spazio vocaboli di varia origine semantica…
Scrive con nervi tesi, agglutinando eterogenee metafore, che spesso si infilano l’una nell’altra come pezzi
di un gioco di pazienza, matematico, simile a un rebus, a rompicapi insolubili, con allusioni, ricordi, riferimenti che solo le persone a lei vicine potrebbero intendere; ma la poesia sincera – ed è il caso della insegnante in materie scientifiche Adriana Tasin – chiede sempre al lettore un contributo non piccolo di fatica e d’intelligenza; un’intelligenza del cuore: sembra suggerire l’autrice, da saper quasi “teologicamente condividere”.
Recensione
Nel gesto, che sia piccolo o grande, voluto o no, c’è la consapevolezza della donna, della poetessa, che lo vede, lo incanala, lo lavora, lo elabora, un gesto da cui parte la rinascita. Un gesto che è concretezza e memoria. Il silenzio, il vuoto, il pieno di dolore, la poesia di Adriana è vita attraverso i suoi versi cesellati, versi che maturano sotto la coltre della neve.
Un libro, il suo, che parla dell’amore e del tempo che affina.
Moka
Poesia estratta dalla silloge
Non c’è più estate nei miei occhi
ma bianco che soffoca come un cuscino.
Lo avresti mai detto che il bianco grava?
Chiude bocca e laringe.
E tutta quella neve…
cade e giace
muta e minuta
cristallo su cristallo
come preghiera su preghiera.
Nella mia finitudine
sono incavo spoglio nella stanza
stringo il rosario tra le dita
sacro nella notte
nodo scorsoio del mio anulare.
Non portarmela via
la fede
non in quest’ora nevata
che il cielo è invisibile ai miei occhi
e non ne ho più contezza.
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